Il lavoratore ha diritto a prendere un permesso retribuito per portare l’animale dal veterinario.

Gli animali non hanno meno diritto dell’uomo ad essere curati. Anzi, così come  con i minori e gli incapaci, chi è tenuto a prendersene cura è responsabile penalmente se li lascia in condizioni di abbandono. Ecco perché chi vive da solo deve avere la possibilità di prendersi un permesso retribuito dal lavoro per curare il cane o il gatto, ossia per portarlo dal veterinario e apprestargli i dovuti soccorsi medici.

Una affermazione del genere farà sicuramente storcere il naso: quand’è stata l’ultima volta in cui hai preso un giorno di malattia e, oltre a inviare il certificato medico, sei stato sottoposto alla visita fiscale, per poi tornare, al lavoro, con una mola di arretrato da smaltire? I controlli del datore di lavoro sono spesso oppressivi e denotano completa sfiducia. Figuriamoci se il giorno di assenza, per giunta a spese dell’azienda, dovesse essere chiesto per le cure di un animale domestico. Eppure è così: al dipendente va riconosciuto il permesso retribuito per per curare il cane o il gatto. È già successo a Roma, dove una dipendente dell’Università La Sapienza, che viveva da sola, ha ottenuto di assentarsi dal lavoro per due giorni perchè l’animale domestico necessitava di un intervento medico veterinario urgente e indifferibile alla laringe e poi andava accudito.

Chi non cura l’animale domestico ne risponde penalmente

I contratti collettivi, in questo, sono elastici e offrono un appiglio interpretativo: laddove consentono la possibilità di assentarsi per «grave motivo familiare e personale» di fatto estendono il diritto a tutta una serie di ipotesi che, seppur non elencate in modo esplicito, consentono di collegare il permesso anche a situazioni come quella dell’assistenza all’animale malato.

Bisognerà però dimostrare, con carte alla mano, che il lavoratore o vive da solo oppure che le persone che vivono in casa hanno anch’esse  un posto di lavoro e, quindi, non ha possibilità di delegare l’incombenza ad altri familiari; dall’altro lato servirà il certificato veterinario che dichiari la malattia dell’animale, certificato che, eventualmente, può anche essere presentato dopo la visita.

È la stessa Cassazione, del resto, a stabilire che «la non cura di un animale di proprietà integra, secondo la Cassazione, il reato di maltrattamento degli animali previsto dal codice penale». C’è poi il reato di abbandono di animale, come previsto sempre dal codice penale, spiega una nota della Lav. «È evidente, quindi, che non poter prestare, far prestare da un medico veterinario cure o accertamenti indifferibili all’animale, come in questo caso, rappresentava chiaramente un grave motivo personale e di famiglia, visto che la signora vive da sola e non aveva alternative per il trasporto e la necessaria assistenza al cane».

Sulle pagine del Sole 24Ore, il Presidente della Lav ha così dichiarato: «D’ora in avanti, con le dovute certificazioni medico-veterinarie, chi si troverà nella stessa situazione potrà citare questo importante precedente. Un altro significativo passo in avanti che prende atto di come gli animali non tenuti a fini di lucro o di produzione sono a tutti gli effetti componenti della famiglia».

Chissà ora se l’Inps, attrezzandosi alla mutata sensibilità sociale, si doterà anche di veterinari per fare la visita fiscale al cane o al gatto…