Il ritorno della runner

Oddio, l’ho scritta.

La parola “runner” intendo.

Ebbene si, ho ceduto alla vanità e mi sono fregiata di questo titolo che fa tanto pheega salutista ma il cui significato reale è: “vado a correre se e quando ho tempo, peli superflui permettendo”.

Giuro che non volevo entrare nel girone dei salutisti 2.0 (quelli, per intenderci, che non solo vanno a correre per i noti benefici sulla salute ma lo fanno esponendo un corredo tecnologico da fare invidia a Tony Stark e sfoggiando i propri risultati sui più famosi social network) ma sono poi andata alla Decathlon per acquistare tuta e maglietta e da lì la situazione m’è sfuggita di mano.

Tipo che volevo un outfit a basso costo (mi conosco benissimo e so perfettamente che la velocità con cui inizio una causa è la medesima con cui poi l’abbandono) ma , anziché volare basso e chiedere “abbigliamento sportivo per sporadiche corsette all’aria aperta”, sono finita col domandare dove fosse il “reparto per i runner”.
Per la serie: se dobbiamo pisciare lungo, facciamo un getto di almeno dieci metri.

Così mi sono vista rifilare una pesante matassa di pantaloni, scarpe, maglie traspiranti, giacchette anti pioggia, aggeggi per misurare la frequenza cardiaca (e capire quindi quanto manca all’infarto), fasce e altro ciarpame di cui ho rimosso lo scopo nel momento stesso in cui me lo si spiegava; dopo essermi scelta l’outfit che meno dava l’idea di quanto fossi in pessimi rapporti con l’esercizio fisico (fingendo in realtà di valutare la qualità del materiale traspirante), ho declinato il gentile invito del commesso ad acquistare una fascia per la fronte da venti euro e mi sono diretta alle casse, dove il conto ha funzionato più della salvaguardia della mia salute come deterrente per cominciare a correre.

Ed il giorno dopo ho iniziato.

Trescore City ha una bellissima pista ciclabile che segue parallela la strada che conduce fino a Crema, pullulante di persone che si godono una passeggiata, vanno sui roller, pedalano, portano a spasso il proprio Fido e corrono.

Ecco perché l’ho evitata come la peste.

Bardata da runner mi sono diretta in mezzo ai campi, là dove potevo morire aggredita da qualche maniaco ma salva dalla gogna pubblica (e dagli strombazzamenti delle macchine, ma quello l’avrei scoperto solo più tardi); ricordando i consigli del personal pirler sono partita con calma, tipo mezzo km di camminata svelta, un altro km di camminata più veloce e poi, una volta nel cuore della campagna, riparata da alte piante di granturco, con l’assoluta certezza di essere da sola con nutrie e moscerini, mi sono lanciata: 200 metri da Usain Bolt, 800 metri da “sto per morire” (ma pur sempre pervasi da grande entusiasmo), un km di finto defaticamento (cioè “sto per morire davvero”) ed i restanti due km passeggiata verso casa.

Una volta a casa, sotto la doccia e con le gambe piene di acido lattico, mi sono chiesta: quand’è che sono diventata così pigra?

Quando ero bambina era un continuo correre, al martedì incrociavo le dita perché l’insegnante di ginnastica-storia-geografia non se ne uscisse con “siamo indietro col programma di storia, niente palestra” (mi domando ancora oggi se sia andata di sfiga solo a me o se era peculiare degli insegnanti negli anni ’90) e a quindici anni avevo le ore di educazione fisica a scuola, due allenamenti di karatè e due di calcio a settimana. Ed ero ben più tracagnotta di adesso. Quando ho cominciato a vedere l’esercizio fisico come una rottura di palle e poi come una missione impossibile?

Misteri della fede. Però il giorno dopo, nonostante il disagio mentale, mi sono rimessa quelle scarpe e quell’outfit confortevole e sono tornata a rantolare in campagna.

Dicono che un’abitudine diventi tale se la portiamo avanti per più di una trentina di giorni, così mi sono detta “se al trentesimo giorno sto messa come oggi, fanciuffolo, vendo tutto su e-bay e prendo a schiaffi chi se ne esce con sta cagata”. Così su quella strada ho sudato per tutti e trenta i giorni trovando amanti in camporella, fauna selvatica e inspirando migliaia di moscerini, scoprendo che le canzoni in tonalità maggiore e mediamente veloci mi caricavano a pallettoni, mi sono impilata una trentina di brani (“Don’t sto believing” versione Glee Club in testa) in una playlist dall’accattivante nome “corsa spacco” e mi sono pure scaricata Endomondo, app meno famosa di Runtastic, ma dalle stesse funzioni, gratuita e meno assillante sull’upgrade a versione pro. Nel mentre i km aumentavano ed i tempi diminuivano, tanto che a metà estate, stufa del solito percorso, ho abbandonato la rassicurante muraglia di granturco in favore della pista ciclabile.
Certo, ho avuto altri momenti no come quando mi sono vista sorpassare da podisti, anziani più allenati di me o mi sono ritrovata i fantasmini sotto al piede (capendo finalmente l’utilità dei calzini col collo alto) però, cazzoporco, ce l’ho fatta.

Ero diventata una runner e mi pavoneggiavo dei miei risultati pubblicandoli su Facebook.

E poi niente, sono rimasta incinta e ho smesso. Finita la scusa del devo attendere che si risistemi il pavimento pelvico, quella dell’allatto ogni tre ore, del devo portare a spasso il bambino che ancora dipende solo da me, quella del però se scoppia a piangere mentre non ci sono?, quella del metti che mio marito abbia bisogno a casa, è rimasta più solo quella del sto mangiando troppi pochi carboidrati per non svenire.

Poi riprenderò a correre, giuro.

Pubblicato da Little Cinderella

Nata nel "recente" 1984, sono appassionata di tutto ciò che è creativo e che permetta di giustificare la mia scarsa propensione all'ordine.