Di mammitudine e maschere

Ricordo perfettamente quando ho iniziato a usare le prime maschere da mamma.

Ero in un ristorante giapponese, seduta ad uno di quei tavolini di design che tanto mi piacevano prima di trovarli troppo piccoli per sistemarci tutto il necessaire del pupo.

Eravamo io, mio marito, il nano che aveva appena compiuto due mesi ed uno dei nostri testimoni di nozze.

Per quanto ci fossimo organizzati con gli orari delle poppate, il nano scoppiò a piangere. Iniziai a calmarlo attaccandolo alla tetta mentre mio marito mi imboccava (pucciosissimo siparietto che incrementò le nascite tra i nostri conoscenti), poi finimmo col mangiare a turno per portarlo su e giù lungo la via del locale.

Tutto ciò, per quanto poi sarebbe diventata una prassi abitudinaria, mi stava provocando un tremendo scazzo. Però ero lì, a quel tavolo: volto sorridente e racconto entusiasta di quanto meravigliosa fosse la natura coi suoi meccanismi millenari.

“Che figata” rispose il mio amico senza figli e ancora alle prese con la laurea di secondo livello.

“Bene, bene…” mi ripetevo mentre spiegavo il meccanismo dell’allattamento a richiesta “non si è annoiato, non siamo stati pesanti ed il bambino, anche se ha pianto e ci ha fatto mangiare a turni, non ha spaventato nessuno, nessuno si è lamentato, nessuno si è scocciato, siamo salvi, la nostra vita sociale è salva!”.

La mia maschera è-tutto-sotto-controllo aveva funzionato.

La indossai molte volte, in quei primi tempi.

Tipo quando dicevo che la sera non volevo visite (ogni secondo di sonno è vitale per un neo-genitore!) ma c’era qualche parente stretto che poteva arrivare solo dopo cena. Capitò poche volte, un lusso rispetto ad altri, ma capitò. E mi dissi che per quelle due o tre volte poteva andare, su pure la maschera del ce-la-posso-fare e via che si parte col racconto del travaglio, della prima scagazzata e del primo vomitino.

Visto? Alla fine è stato anche piacevole…” mi ripetevo mentre la toglievo per crollare a letto.

Anche all’ennesima richiesta di:
-Ci siete per cena?-.
-No, meglio pranzo che la sera è critica-.
-Ah, è che a cena venivano anche tizio e caio.. sai che ci tengono-.
E sticazzi, anche se sono parenti di primo grado! volevo urlare. Ma c’era la maschera del sii-comprensiva e, senza uccidere nessuno, ribadivo il no all’invito.

Ne ho usate altre e più volte, quando il bambino si svegliava per le poppate notturne, quando si attaccava mezzora a tetta, quando avevo ragadi e mastite e preferivo tirarmi il latte per darglielo col biberon (cosa fattibile solo il primo mese, poi bon, se non era tetta non c’era storia), quando avevo il mal di schiena perché non trovavo la posizione adatta.
Per quelle occasioni avevo: L’-allattamento-a-richiesta-è-una-cosa-meravigliosa.

La verità era che invidiavo a morte chi andava di biberon.

Poi col bimbo è andato tutto a posto, due mesi e mezzo e già filava dritto per sei ore, il latte ormai sgorgava in gran quantità, organizzavo con marito le maratone delle nostre serie tv preferite durante le poppate.

Ma era tempo di mettere la ci-penso-io, non-sono-stanca e faccio-da-sola.

A volte anche me-ne-sbatto-dei-kg-in-piùme-ne-fotto-del-disordine.

Tutte messe nonostante avessi marito e famiglia che mi ripetevano fino allo sfinimento “se hai bisogno dillo!”.

E man mano che il bambino cresceva e che la nostra vita tornava alla normalità ho ripreso a indossare anche quelle che già utilizzavo prima di diventare mamma: sono-calma, va-bene-lo-stesso e sto-bene. Il mio comò era pieno di maschere per ogni occasione perché la vita, dalle medie in poi, mi aveva insegnato che in qualche modo bisognava andare d’accordo con gli altri e la soluzione migliore (cioè senza litigi e malumori) era quella di adattarsi.

Tuttavia se una volta, con anni e tanti impegni di meno, riuscivo a rimanere impassibile ad un “Ah si? Era questo weekend che dovevamo venire su? Eh ma io non ho più sentito nessuno, pensavo fosse saltato tutto…” adesso qualche crepa iniziava a formarsi.

Più la vita “normale” riprendeva, più tornavo ad avere a che fare con le cose che mi facevano saltare i nervi tra persone, impegni ed il tempo per fare cose edificanti che non era mai abbastanza.
Continuavo a stuccare, riparare, ripetermi “va tutto bene, è normale, sei mamma e sei stanca, ma è così per tutte“.

Poi c’è stata la sera in cui, a seguito di una frase poco felice di mio padre, sono salita in bagno ed ho sentito l’esigenza di lanciare per aria la pila di settimane enigmistiche.
Una crepa enorme tagliava quasi per tutta la lunghezza la mia maschera del va-tutto-bene. E, su tutte le altre, se ne stavano formando di nuove.

Man mano che le crepe avanzavano con loro arrivavano la tachicardia, il respiro affannoso, la dissenteria, l’insonnia.. Finché, al terzo ricovero al pronto soccorso con la pressione alle stelle, la maggior parte di loro si sono frantumate.

Stavo male.

Ma non male che ti fai una dormita e poi passa. Era un male persistente, paura di qualcosa di indefinito che quando andava bene prendeva forme più precise per diventare paura della morte, di rimanere vedova o di ritrovarmi senza soldi.

Era panico. Puro.

Quello che non ti fa sentire al sicuro da nessuna parte, ti fa guardare con sospetto il cibo, ti spinge ad una serie di necessità ridicole e, infine, a pensare che l’unica soluzione sia quella di lanciarsi dalla finestra.

E non avendo mai sentito parlare di attacchi di panico e di come un malessere psicologico finisca col far male anche fisicamente, mi sentivo come un coniglio in una gabbia del macello: stretta da sbarre indistruttibili, dinanzi a uno spettacolo spaventoso, senza alcuna possibilità di essere salvata.

Al mattino seguente l’ultimo ricovero, vedendo che la TAC non dava niente, la neurologa mi chiese se ero una neo-mamma. Non riuscii a rispondere. Scoppiai semplicemente a piangere.

Si, ero una mamma, ed era terribile. Perché amavo mio figlio più di me stessa ma non riuscivo ad essere come immaginavo fossero tutte le mamme: mature, sicure, piene di energie e poco inclini a prendersi dello spazio per loro stesse. Io volevo tornare a svegliarmi perché mi sentivo riposata, non perché mio figlio era in piedi nel lettino a sgaiare. Volevo tornare a poter ballare e cantare le canzoni dei Gotthard a tutto volume, mettermi a pulire casa quando mi andava, non solo quando il piccolo faceva il riposino. Volevo tornare a prendermi l’influenza senza dovermi preoccupare di chi avrebbe nutrito il bambino al posto mio.

Volevo tornare a essere libera. Mamma, ma comunque libera.

Iniziarono le terapie con lo psichiatra, la psicologa, lo xanax e l’antidepressivo, ma anche quelle a base di coccole e attenzioni che, quando avevo la maschera del va-tutto-bene, non mi ero mai concessa.

Sono-calma si sbriciolò completamente sotto le domande di psichiatra e psicologa lasciando uscire anni e anni di incazzature trattenute, frasi non dette, bastardate sopportate stoicamente e stupidamente.

Faccio-da-sola l’ho poi distrutta a mazzate, a fatica, giorno dopo giorno. Certo, ancora chiedo a marito se non si scoccia a tenermi il bambino e lui mi risponde stizzito “è anche figlio mio, sai?”. Ma smetterò, promesso. Mamma e papà ogni tanto vengono su, mamma mi aiuta a fare quelle pulizie di casa che detesto e in compenso li porto nella loro gelateria preferita a far merenda (più per papà, che è goloso!). Se sono stanca lo dico. Se non ho voglia di uscire non esco. Sembrava difficile ma in realtà è molto, molto semplice.

Devo-fare-la-mamma invece l’ho gettata via circa un anno fa, poco prima di Lodi, mentre raggiungevo la mia cantante per tornare a suonare. Sia io che marito continuiamo a farlo, anzi, io mi sono ancora presa un secondo gruppo che, assieme al primo, mi stanno dando conferma della mia scelta: per essere una brava mamma ogni tanto è bene non fare la mamma.

E così è stato per tante altre maschere.

Non le ho distrutte tutte, ci sto lavorando. Non dico nemmeno che non ne indosserò più perché a volte servono, anche solo per il quieto vivere civile…

…Ma adesso almeno so quando è ora di togliermele 🙂
#Strormoms: maschere

 

 

Pubblicato da Little Cinderella

Nata nel "recente" 1984, sono appassionata di tutto ciò che è creativo e che permetta di giustificare la mia scarsa propensione all'ordine.

4 Risposte a “Di mammitudine e maschere”

    1. Prego, spero che possa essere d’aiuto per altre mamme che hanno vissuto la mia stessa situazione 🙂

  1. Mi dispiace che tu sia arrivata a stare così male, prima di poter iniziare a gettare via le maschere! Purtroppo ci sentiamo tutte in dovere di sembrare sempre super mamme e super donne, quando i nostri figli e quasi sempre i nostri partner, nemmeno ce lo chiedono! Sono contenta che tu adesso stia meglio. Hai avuto coraggio a scrivere questo post sincero. È un tema su cui esistono ancora troppi tabù!

    1. Ti ringrazio tanto, è vero, ci sono troppi tabù! Per questo ne parlo liberamente sia a voce che nel blog, dobbiamo far capire che la maternità non è sempre rosa e fiori e che incappare in queste situazioni non è difficile come si crede 🙂

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